Vittorio Cavini, Michelle (Il respiro dei baobab)
Prefazione
Il romanzo di Vittorio Cavini è sotto molti aspetti una ‘entità letteraria ambigua’; questa definizione intende legare saldamente la solidità semantica del romanzo classico, ilBildungsroman che affronta i temi dell’amore e dell’amicizia, con la sottile leggerezza del saggio filosofico, della meditazione esistenziale.
Michelle è un’opera che si presenta al lettore sotto le mentite spoglie di un’apparente semplicità tematica e stilistica, per poi coglierlo di sorpresa e circondarlo con mille affascinanti paradossi, con laceranti contraddizioni, con quegli enigmi che tutti noi cerchiamo contemporaneamente di risolvere e ignorare.
La storia, rigorosamente in prima persona, è la cronaca di due diversi modi di percepire e affrontare la vita. Da una parte Marco, con il suo agnosticismo da fotoreporter, con la sua filosofia di vita pratica e disillusa, la rabbia contro i dogmi e le regole impartite, e dall’altra Michelle, bellissima missionaria, santa decaduta dalla grazia di Dio, anima in pezzi.
Sullo sfondo il continente africano, contenitore anch’esso di passioni contrastanti, di religioni e razze mai completamente in pace tra loro. Un’Africa senza tramonti d’oro e savane incontaminate, ma terra di fame ed epidemie, dove regna incontrastata labrousse, un sottobosco arido, fatto di piccoli arbusti e serpentelli velenosi, paesaggio paradossale ed inquietante. Eppure questo mondo continua a commuovere ed affascinare, per la sua semplicità, per la sfida lacerante che scaglia verso di noi, ma soprattutto perché qui è ancora possibile ascoltare la voce degli spiriti, la voce dei Baobab.
L’universo letterario di Cavini finisce sempre col superare i contrasti e le contraddizioni; la sua prosa, ricca e sensuale, scandisce un ritmo lento e avvolgente, che evoca una pace ritrovata.
Il libro è infatti il diario di una ricerca, la ricerca dello scambio, della sintesi che sveli, anzi ‘riveli’, il segreto per vivere qui, dove siamo tutti noi, nel mondo reale, che sta tra il cielo e la terra, tra il pragmatismo e la spiritualità, il cinismo e l’amore.
L’intento di quest’opera è quello di ricordarci la prima vera legge che non andrebbe mai dimenticata, e cioè che non è importante quanto riusciamo a cambiare ciò che ci circonda, ma quanto siamo davvero in grado di farci trasformare e illuminare da esso, per essere sempre delle persone nuove.
«Non ci siamo mai amati Michelle ed io; Eppure se amore è dare, allora il nostro è stato l’amore più grande[1].»
Giacomo Barbi
L’incipit del romanzo
Non ci siamo mai amati io e Michelle. Siamo vissuti assieme, certo; i nostri occhi si sono accarezzati, abbiamo passato lunghe e calde notti stretti tra braccia tremanti, abbiamo parlato di Dio e degli Dei, abbiamo fatto affannose corse sulla spiaggia. E insieme abbiamo riso e pianto, siamo stati malinconici e allegri. E quando lei se ne è andata, mi ha appoggiato la bocca sulle labbra, mi ha dato la mano ed era triste, ma non molto. E anch’io ero triste, ma non molto, perché così doveva essere: il nostro non era mai stato amore, lo sapevamo.
Eppure, se amore è dare, allora il nostro è stato l’amore più grande. Io le ho donato il mio mondo segreto, lei mi ha donato il suo. Lo spirito delle cose ‑ che una volta per Michelle era la vita ‑ oggi è la vita per me, anche se quello spirito si è moltiplicato e io ne vedo tanti sulla terra, nel cielo, nelle acque e negli animali. Lei mi ha dato il mondo che non si vede e ha preso in cambio quel agnosticismo caldo e freddo che era ‑ prima di Michelle ‑ la mia stessa vita.
Forse io e Michelle non ci siamo mai davvero amati, o forse il nostro è stato l’amore più grande. Ma cosa importa! I nostri mondi vivono uno dentro l’altro: in me c’è ancora lei, e in lei sono rimasto io.
Non la penso spesso, ma la vedo viva e dolce quando accarezzo il tronco rugoso di un albero, quando i fulmini abbagliano il cielo, quando gli dei delle acque e dei boschi mi parlano di gioia o di tristezza. Allora Michelle mi torna accanto e io penso a lei.
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Il mio è uno di quei lavori fortunati che permettono ‑ un po’ ‑ di fare quello che si vuole, senza padroni e senza capi. Ci sono lo stesso, naturalmente: i capi ci sono sempre, ma posso anche credere di non averne. Non è stato sempre così, ma le cose cambiano quando meno te lo aspetti.
Adesso non sono un fotografo, non sono un giornalista, non sono uno scrittore o uno studioso: sono un po’ tutte queste cose insieme; in tutte sono abbastanza bravo, anche se non ne faccio veramente bene nessuna. Però la gente non se ne accorge, e a me sta bene così.
Prima, andavo a pietire da editori e direttori di riviste per vendere un articolo o una foto: adesso vengono loro da me. E, se non ne ho voglia, posso dire di no o anche spendere dei soldi di tasca mia per andare a cercare cose che non interessano a nessuno.
Il colpo di fortuna è di alcuni anni fa.
Avevo convinto una piccola casa editrice a pubblicare un libro di fotografie: molte immagini e poco testo. Le foto le avevo scattate nel corso degli anni un po’ in tutto il mondo e mostravano quei crocefissi, santi, madonne, gruppi in legno o pietra che si trovavano soprattutto nei piccoli crocevia di campagna. C’erano i “calvari” marmorei della Bretagna e della Normandia, ma anche le ingenue statuette votive del sud dell’Italia o i grandi Cristi in croce delle Alpi. Molte pagine erano dedicate ai “Santi dei crocicchi” nei Paesi dell’Est: Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Unione Sovietica. Ce ne sono di bellissimi.
Il libro era rimasto a lungo nelle edicole e nelle librerie. Lo compravano solo pochi appassionati. Io non ci guadagnavo nulla; il mio editore ci rimetteva.
Poi, un giorno, lo vide un turista americano, uno importante: non so nemmeno più si nel mondo del giornalismo o dell’editoria o comunque dei media. Lo vide e rimase sconvolto dai santi nei Paesi dell’Est.
Gli Americani sono un popolo strano: hanno tutto, hanno i canali di informazione migliori del mondo, quelli meno censurati e più liberi, eppure non sono ancora riusciti a liberarsi da una serie di stereotipi che non sta nè in cielo nè in terra. Il più radicato di questi è la convinzione che all’Est Dio non esista, sia stato scacciato; che i suoi fedeli siano additati a vista e perseguitati. Un fondo di vero c’è, ma probabilmente la religiosità dei Polacchi è più sincera e convinta di quella degli Italiani.
Il turista comunque andò dal mio editore, e pochi mesi dopo “i santi dei crocicchi” vendeva un numero spropositato di copie negli Stati Uniti.
Poco dopo a Roma arrivò un papa polacco e tutti scoprirono la Chiesa anche all’Est, ma in quel momento i miei “santi” erano stati una rivelazione.
E a me hanno portato non tantissimi soldi, ma quelli che oggi mi consentono di fare un po’ quello che voglio, senza dover ad ogni minuto pensare al conto in banca. Posso passare giorni nei luoghi più impensati a scattare quelle che chiamo “le mie diapositive demenziali”. Mi è successo ad esempio di stare in un villaggio tibetano per due settimane, quasi sempre seduto su una pietra piatta che aveva di fronte la parete scabra di una capanna, alle spalle dei cespugli verdi che stavano riempiendosi di bacche rosse, ai lati dei sostegni di legno ai quali gli indigeni appoggiavano ogni giorno gli strumenti di lavoro, secondo un ordine che variava di poco, ma era ogni volta diverso. Non ho fotografato mai la parete intera, o i cespugli, o gli attrezzi, ma sempre solo particolari piccolissimi ripetuti infinite volte a seconda della luce che cambiava con l’avanzare delle ore. Il teleobiettivo esaltava granelli microscopici di calce, minuscole caverne oscure, crepe zigzaganti come serpentelli capricciosi. Oppure il singolo dente di legno di un rastrello, sullo sfondo sfuocato del verde di una foglia o della macchia rossa di una irriconoscibile bacca.
Gli indigeni venivano a guardarmi in silenzio. Si sedevano attorno a me, finita la loro lunga giornata di lavoro, e non dicevano nulla, neanche i bambini.
Un vecchio sacerdote era mio compagno sempre: aveva scelto un’altra pietra, non lontana dalla mia, e dalla sua pietra mi guardava. A volte pregava senza che si udissero le parole, ma più spesso restava immobile, rivolto nella mia direzione. Non mi salutava quando arrivava e io non salutavo lui, ma, se non c’era, non riuscivo a lavorare. Quando, durante la giornata o a sera, appoggiavo le macchine sulla pietra e mi alzavo, si alzavano tutti, e tutti cominciavano a parlare. Non si rivolgevano a me, ma parlavano tutti assieme e ci passavamo acqua e pezzi di carne essiccata.
Non erano curiosi. Non volevano sapere cosa stessi facendo e perché. Stavano assieme e basta. Loro con la loro attesa, io con le mie foto demenziali.
Poi ci inchinavamo giungendo le mani davanti al petto e andavamo a dormire pronti a rincominciare l’indomani.
Queste foto le ho tutte. Riempiono un intero scaffale. Ogni tanto ne metto qualcuna nel visore e la guardo: l’angolo di una foglia, un pezzetto di attrezzo, qualche millimetro di parete; ma solo a me dicono qualcosa.
A volte, penso che mi piacerebbe poter rivedere il volto del vecchio immobile sulla sua pietra, o magari la parete intera della capanna. Ma è meglio così.
Il villaggio, con le sue venti casupole, i suoi abitanti, il suo cielo lontano e le montagne bianche di neve, è racchiuso in spazi piccolissimi che solo nella mia mente si dilatano fino a formare un tutto, al quale si aggiunge il sibilo gelido del vento che scende dai ghiacci e l’odore acre della terra concimata dalla quale i burberi yak guardano con occhi sospettosi.
Ma queste erano parentesi mie e di nessun altro. Ci mettevo soldi miei e non ne ricavavo nulla. Qualche volta, però, dovevo pensare anche a qualcosa di diverso. A delle foto che comunicassero idee e sentimenti anche ad altri, ad esempio, o all’illustrazione di paesi e popolazioni. Quando poi volevo guadagnare sul serio, facevo foto di moda in ambienti più o meno esotici. Era un vendermi banale, ma rendeva bene. Le riviste vanno pazze per le immagini di artificiose modelle in abiti da sera adorni di perle, mentre, sullo sfondo, un elefante alza sdegnoso la proboscide, e immensa la savana africana suscita impressioni di eternità. E quando non è l’elefante, è il coccodrillo, o un palmeto, o l’azzurro del mare attorno alla barriera corallina. Io poi ci scrivevo delle didascalie cretine che piacevano ancora più delle foto, e così mi guadagnavo le cose che veramente mi stavano a cuore.
Che sono poi le stesse che piacciono a tutti i maschi sani di mente e di corpo con ormai quarant’anni alle spalle e una vita, se non proprio avventurosa, certo abbastanza movimentata. Ci sono in tutto il mondo ragazze bellissime che sognano d’essere portate per qualche giorno sulla Costa Azzurra o a Venezia. La differenza fra la “Tour d’Argent” sulle rive gauche e una qualsiasi trattoria romana, la vedono solo nel diverso prezzo, non nella qualità del cibo, ma è quello che loro capiscono.
E sono molto brave a vivere con te per una decina di giorni, parlando fitto fitto di cose che nessuno ascolta, godendo della poca attenzione che ogni tanto le dedichi, mostrando di essere felici anche se non lo sono.
E gli alberghi esclusivi, pieni di specchi e di piante che salgono fino al soffitto, paiono fatti attorno a loro, agli abiti svolazzanti, ai foulard, alle calze ricamate. Loro sono il quadro; gli hotel di lusso, i ristoranti a tre stelle, i caffè più sofisticati, sono soltanto la cornice. Poi tutto finiva rapidamente come se non fosse mai cominciato. Cancellavo anche il nome dall’agendina. Ci sarebbero state altre ragazze, altri posti, altre storie; tutte sempre uguali, piacevoli e monotone insieme.
E ogni tanto la parentesi solitaria, il villaggio nel Tibet o l’atollo deserto.
“Goditi la vita in ogni momento”, mi dicevo. “Prenditi una donna, quando la vuoi; stattene solo, se hai voglia di stare solo”.
In fondo, la mia era una filosofia molto semplice: al di là della vita non c’è nulla; la morte è l’addio per sempre. L’unico bene prezioso quindi è la vita con la sua successione di attimi.
Nei confronti degli uomini di fede ‑ non importa quale ‑ ho sempre avuto sentimenti contrastanti di invidia e di disprezzo. Invidia perché la loro vita, e non la mia, è eterna; disprezzo perché cercano conforto al dolore e alla morte in una finzione alla quale è impossibile credere.
Non mi davano fastidio, ma vivevamo in due sfere separate. Mi piaceva guardarli, i santoni indiani, gli stregoni sudamericani, i muezzin che urlano dall’alto dei minareti, o i preti cattolici che in un’ostia di pane vedono sangue e carne. E mi piaceva ascoltare le parole dei loro riti anche quando non ne capivo il significato.
Ma gli uomini di fede conosciuti nella mia vita erano pochi. Pochissimi quelli che credevano sul serio, senza pentimenti o ipocrisie. E quelli li avevo trovati soprattutto fra i “selvaggi”, in Asia, in Africa, in Centro America.
Oppure erano gli adepti alle piccole sette, disprezzate e vilipese dalle grandi religioni: quelli che vanno di casa in casa a predicare la fine del mondo, o a invocare il perdono di un loro Dio sconosciuto sui peccati degli altri e tutti li cacciano e chiudono loro la porta in faccia.
Che credessero oppure no, a me importava poco. Mi piaceva guardarli, studiarli, e magari fotografarli di nascosto durante i loro riti per cogliere, a volte, impressioni di stanchezza, di sfiducia; altre, estasi di felicità, quando un Dio inesistente entrava in loro trasfigurandoli.
Io ero solo una macchina fotografica, uno strumento senza anima e senza spirito che guarda, registra, ricorda. Ma uno strumento freddo, asettico: che non partecipa e che non vuole partecipare.
Scrivevo di loro con rispetto, perché era ed è giusto farlo. Chiedevo soltanto che anch’essi rispettassero me e la mia certezza: Dio non esiste, tutti gli Dei sono solo delle invenzioni, degli alibi.
Ma non sempre era facile.