La responsabilità diretta e personale nel danno da “mobbing”

La responsabilità diretta e personale nel danno da “mobbing”

Premessa: un argomento poco conosciuto

Negli ultimi anni si è iniziato a parlare del problema del “mobbing” (nota 1) sul posto di lavoro, mettendone in luce – e giustamente – definizione, caratteristiche, crescente diffusione, finalità politiche ed aziendali, aspetti economici, danni subiti dai lavoratori vessati , responsabilità del datore di lavoro, carenze legislative, ecc.

Scarsa attenzione, però, è stata dedicata ad un argomento pur fondamentale ed “intuitivo”: la responsabilità personale diretta, civile e penale, dei colleghi e superiori gerarchici autori dei fatti di “mobbing” (c.d. “mobber”) nonché le valenze di plurioffensività della loro condotta.

E’ su questo aspetto che si intende in questa sede attirare l’attenzione, nella consapevolezza che quanto qui tratteggiato è solo il primo passo di un lungo e laborioso cammino.

Introduzione: la perdita del senso di responsabilità personale

Se osserviamo i casi di “mobbing” da vicino, rimaniamo sconcertati dal notare come – troppo spesso – i “mobber” abbiano agito come se coltivassero, nell’intimo, un forte convincimento di impunità.

Sia chiaro: le cause del “mobbing” sono politiche, non psicologiche; tuttavia, è fin troppo ovvio che moltissimi episodi con tutta probabilità non si sarebbero verificati se gli autori del “mobbing” avessero dovuto riflettere anche un solo istante sulle possibili conseguenze, civili e penali, “a loro carico”.

Eppure il concetto generale che l’autore del fatto illecito e del “fatto-reato” risponda personalmente (con tutto il suo patrimonio, presente e futuro, nonché con la sua posizione penale) è antico come l’uomo; anzi , per millenni è stato ancorato al puro e semplice elemento materiale, generando una responsabilità oggettiva, immediata, precisa, persino “brutale”: pensiamo al guardiano del fuoco che veniva ” comunque” punito se lasciava spegnere il fuoco.

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Nei secoli diversi elementi , soggettivi ed oggettivi, hanno progressivamente contribuito a “temperare” il senso generale di responsabilità del cittadino contemporaneo (nota 2)

Inoltre , gli art. 2049 e 2087 cod. civ., ( pur preziosi per il ruolo di responsabilizzazione del datore di lavoro , soggetto che si presume, fra l’altro, dotato di molta maggior “rispondenza patrimoniale” rispetto al singolo collega), hanno comportato che il più delle volte venne chiamato in causa “solo” il datore di lavoro.

Ciò – unitamente ad un certo “clima politico” presente “in azienda” – deve aver contribuito a far sorgere nei “mobber” quasi la sensazione ” che il luogo di lavoro sia diventato una causa oggettiva di esclusione della punibilità ” (considerazioni parzialmente analoghe possono valere per fenomeni simili: il “nonnismo” in ambito militare, il “bullismo” nelle scuole ed in certi quartieri, ecc)

E’ questo un caso – e non certo l’unico – di previsioni di responsabilità che dovrebbero essere “di regresso” e “di maggior garanzia” finendo invece per diventare “la vera responsabilità” normalmente azionata in giudizio, con forte conseguenza “diseducativa” sull’intero corpo sociale.

L’aspetto sostanziale

Eppure i fatti di “mobbing” sul luogo di lavoro (aggressioni, discussioni, liti, insubordinazioni, dequalificazioni, inattività forzate, molestie sessuali, comportamenti omissivi ed elusioni di doveri, uso strumentale ed estorsivo del potere disciplinare, trasferimenti pretestuosi, boicottaggi, atteggiamenti beffardi dei superiori e dei colleghi , umiliazioni ingiustificate nelle progressioni di carriera, osservazioni e provocazioni quotidiane, atti e comportamenti di ingiuria e diffamazione, ecc) sono produttivi di danni ben precisi, rilevanti sia sotto il profilo civile sia sotto quello penale.

Civilisticamente abbiamo innanzi tutto – come conseguenza più frequente del “mobbing” – il danno biologico(nota 3) , concetto ormai pacifico nella giurisprudenza italiana; abbiamo poi il danno professionale(nota 4), anch’esso ampiamente riconosciuto sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità. Il danno biologico deve essere integralmente addebitato in maniera personale e diretta “agli autori del mobbing”; questo deve avvenire ogni volta che ricorrano le condizioni previste dall’art. 2043 cod. civ., indipendentemente dalle obbligazioni (importanti sì, ma pur sempre “di regresso”) gravanti sul datore di lavoro ex art. 2049 e 2087 cod. civ.

Penalmente parlando, si dovrà procedere – a querela del “mobbizzato” o anche d’ufficio, nei casi in cui è possibile – per tutte le fattispecie che dovessero emergere, fra cui, per fare l’esempio più frequente, per il reato di lesioni. Ma anche del danno professionale, oltre al datore di lavoro per i consueti titoli (art. 2103 ma anche 2087 e 1375 cod. civ.) , “devono rispondere aquilianamente gli autori del mobbing”, in tutti i casi in cui il danno è eziologicamente riconducibile a reiterati comportamenti personali, dolosi o colposi (per es. ingiustificate sottrazioni di pratiche importanti avvenute per iniziative personali di determinati capiservizio) che hanno comportato ingiuste dequalificazioni o emarginazioni del lavoratore.

A maggior ragione, di quanto sopra gli autori del “mobbing” devono rispondere, questa volta sotto il profilo penale, quando i fatti suddetti, come non di rado succede, oltre ad essere apprezzabili sul piano civilistico come danno professionale sono rilevanti sul piano penale a diversi titoli (si pensi anche solo a comportamenti che , legati a dequalificazioni artatamente indotte, sono fatti di ingiuria, diffamazione, ecc; si veda Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539, di cui amplius più oltre).L’orientamento prevalente (ma non incontrastato) classifica come “cause di lavoro”, con tutte le conseguenze sul rito e sulla competenza, anche quelle (non numerose) in cui si è azionata ( o azionata anche) la responsabilità personale di colleghi; in questo senso, per esempio, Pret. Torino 17/5/96; Cass. 2/3/94 n. 2049; Cass. 20/1/93 n. 698; Pret. Roma 7/6/89; Trib. Milano 15/2/86; Cass. 6/2/85 n. 897; Cass. 27/5/83 n. 3689; Cass. 8/8/83 n. 5293; Cass. 12/12/83 n. 7329; Cass. 19/4/82 n. 2437; Cass. 22/9/81 n. 5171.
L’orientamento non è pacifico, in quanto vi sono pronunce che, forse più opportunamente, hanno distinto la “causa petendi”; se la stessa è costituita dalla responsabilità extracontrattuale, si applicano le normali norme sulla competenza: questo tanto se l’azione è impostata contro il collega (un esempio: Trib. Milano 9/5/98 per un caso di molestie sessuali sul luogo di lavoro) quanto contro lo stesso datore (un esempio: Cass. 12/11/96 n. 9874 per un sinistro stradale occorso mentre l’attore si recava al lavoro).
E’ tuttavia innegabile che il primo orientamento sia prevalente; fondamentale, al riguardo, si presenta la recentissima Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539 (inedita allo stato) che riguarda fatti in cui , sono certo, molti “mobbizzati” si riconosceranno.

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Una lavoratrice licenziata da una grande impresa privata promosse (oltre all’impugnazione del licenziamento) una causa contro il dirigente del personale, da lei ritenuto responsabile della vicenda che portò al licenziamento e del conseguente danno all’immagine; nel caso specifico, venne lamentato anche che il suddetto dirigente assunse atteggiamenti di minaccia e di contenuto estorsivo (fra l’altro con reiterate prospettazioni di presentare una denuncia penale per ottenere le dimissioni della lavoratrice) nonchè lesivi della privacy, dell’onore e della reputazione (fra cui la divulgazione in azienda del contenuto delle contestazioni disciplinari).
In questo processo, dopo alterne e contrastate vicende, venne fissata la competenza funzionale del giudice del lavoro. 
La richiamata sentenza afferma che la natura extracontrattuale della rivendicazione non può risolvere il problema della competenza, in quanto, nei fatti addotti in giudizio, risultava il nesso immediato e diretto fra il comportamento illecito e lo svolgimento del rapporto di lavoro; non solo, ma la stessa pronuncia mette in evidenza che questo nesso non era, nel caso specifico, riconducibile alla mera occasionalità , vista la stretta correlazione fra la condotta addebitata ai convenuti e l’esercizio dei poteri datoriali gerarchico e disciplinare. Si tratta di deduzioni che meritano approfondita riflessione. E’ innegabile che il rito del lavoro , caratterizzato dal “favor lavoratoris”, presenti pronunciati aspetti a favore del soggetto che chiede giustizia ( maggior celerità, minori costi, ecc.) ed è anche abbastanza palese che vi sia un forte nesso fra il rapporto di lavoro e molti comportamenti di “mobbing”, con particolare riguardo a vessazioni provenienti da superiori gerarchici ed incorporate in una stratificata “strategia aziendale”.
Tuttavia non sempre il nesso è evidente e soprattutto “incidente”: se il comportamento dannoso proviene da un pari grado o da un inferiore gerarchico (poniamo il caso, tutt’altro che raro, di minacce e abusi sessuali subiti per anni ed anni sul luogo di lavoro ad opera di colleghi) appare per certi versi una forzatura definire l’eventuale causa per danni come una “causa di lavoro”.

Queste considerazioni , però, non sono sfuggite alla pur minoritaria giurisprudenza sopra richiamata; evidentemente l’orientamento prevalente negli ultimi anni è quello di una interpretazione ed applicazione estensiva degli art. 409 ss c.p.c. 
Inoltre non sempre il rito del lavoro favorisce chi chiede giustizia: nel caso, per esempio, della causa da impostare in un centro di piccole dimensioni contro dipendenti di un datore di lavoro di rilevante peso economico e sociale (esempio tutt’altro che raro in Italia), sarebbe in certi casi ben più vantaggioso, per chi chiede giustizia, poter adire la magistratura secondo le regole ordinarie, magari dopo aver scoperto che uno dei suoi persecutori ha una residenza che consente scelte alternative nell’ambito della competenza territoriale ordinaria.L’impressione generale che se ne ricava è che si tratta di materia che dovrebbe ancora venir sottoposta ad un opportuno lavorio di limatura e di elaborazione da parte della giurisprudenza.

Plurioffensività della condotta e pluralità dei soggetti lesi

Questo è un argomento che meriterebbe un’intera trattazione a parte e a cui riservo, in questa sede, brevissimi cenni, per forza di cose insoddisfacenti, più che altro per completezza di discorso.

E’ ovvio che – oltre alle vittime dirette – il comportamento dei “mobber” danneggia soggetti terzi fra cui, innanzi tutto, il loro stesso datore di lavoro; a nulla rileva il fatto che la maggior parte dei casi sono di derivazione aziendale e fanno parte di un’ampia strategia direzionale, in quanto anche i dirigenti sono pur sempre dipendenti dell’impresa e ad essa devono rispondere. Questa responsabilità dei dipendenti-“mobber” verso il datore di lavoro si inquadra come inadempimento contrattuale ( per es. come violazione dell’obbligo di fedeltà e diligenza) , traendo forma e sostanza dalla perdita di produttività e risorse umane inflitta all’azienda; può anche configurarsi come obbligazione di regresso che il datore di lavoro esercita verso di loro dopo aver “pagato” terzi danneggiati o altri dipendenti danneggiati ex art. 2049 e 2087 cod. civ. A parte questa “configurazione di base”, occorre poi ricordare che spesso l’individuo non è “fine a se stesso” ma fa parte, a volte anche con ruoli di responsabilità, di diverse Organizzazioni portatrici di interessi diffusi.

Il caso più grave ed eclatante – perché “istituzionale” – è il caso del “mobbizzato” che sia anche dirigente, con mansioni importanti ed effettive, di Organizzazioni Sindacali; e se i “mobber” (non ci interessa qui se per iniziativa loro propria o a seguito di una strategia organica aziendale) si scagliano per anni contro il rappresentante sindacale, fino a rendergli impossibile l’espletamento delle sue funzioni, non c’è forse la piena legittimazione di queste Organizzazioni a chiedere ai responsabili i danni loro propri (politico, d’immagine, ecc.) , distinti da quelli personali del “mobbizzato”?
Processualmente ritengo possibile sia azioni distinte – che possono poi subire le vicende processuali ritenute più opportune dal giudice a causa della “comunanza” – sia azioni impostate direttamente dall’uno o dall’altro dei danneggiati, con conseguente intervento processuale degli altri danneggiati.

De jure condendo

A modesto parere di chi scrive gli istituti legislativi e giurisprudenziali già esistenti dovrebbero essere sufficienti a prevenire e punire – in civile ed in penale – il fenomeno del “mobbing”, se solo si abbia la “volontà politica” di applicarli e , ancor di più, se si abbia l’accortezza di “rivalutare” certi parametri economici in base ai quali si calcola il “quantum” dei danni subiti. Inoltre, chiunque abbia una solida formazione storica ha ben presente i rischi e i problemi che comporta una previsione eccessivamente analitica di figure illecite e di fattispecie delittuose. E’ tuttavia possibile che leggi specifiche sul “mobbing” possano rivestire caratteri positivi; questo non tanto per la punibilità in concreto del fenomeno quanto per dimostrare l’attenzione e la volontà politica con cui si segue questi fatti.

Per quanto a conoscenza dello scrivente ed al momento della stesura di questo articolo (fine 1999) giacciono in Parlamento tre iniziative distinte:

  • Proposta di legge n. 1813 del 9/7/96 Camera dei Deputati , On.le Cicu ed altri: previsione dei comportamenti come fatto-reato, prevista la reclusione.

  • Proposta di legge n.. 6410 del 30/9/99 Camera dei Deputati, On.le Benvenuto ed altri: previsione del fenomeno come illecito disciplinare e civile; invalidità degli atti discriminatori del datore di lavoro; responsabilità civile degli autori delle persecuzioni (” Il giudice condanna il responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, che liquida in forma equitativa” art. 5), richiesta, per la suddetta responsabilità, del dolo specifico (“…e con palese predeterminazione…” art. 1).

  • Proposta di legge n. 4265 del 13/10/99 Senato, Sen. Tapparo ed altri, sostanzialmente simile a quello dell.On.le Benvenuto.

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E’ evidente che il progetto ad iniziativa dell’ On.le Cicu – che ebbe “il merito di anticipare i tempi” e la “sfortuna dell’oblio” – fa “scuola a sé”; se ne potrebbe “confermare” la validità per i motivi di immagine e di visibilità già espressi, mentre sotto il profilo strettamente esegetico chi scrive ritiene che la novellazione , a colpi di previsioni analitiche, del codice penale , non possa certo essere considerata un metodo positivo. I due progetti “civilistici” hanno il merito di dare luce al fenomeno, facendolo uscire dalle ombre e dai silenzi nei quali è stato consumato ; contengono interessanti previsioni in sede preventiva ; prevedono l’invalidità degli atti contro il lavoratore “mobbizzato”. Soprattutto, prevedono esplicitamente la “responsabilità civile e disciplinare dei colpevoli”.

Entrambi i suddetti progetti contemplano la competenza del giudice del lavoro ( per il quale valgono le considerazioni, in pro ed in contro, già espresse) ed àncorano il risarcimento danni ad una valutazione equitativa del danno , cosa che può essere discutibile ma che è in linea con la giurisprudenza generale sul danno biologico e professionale. Suscita perplessità la previsione , in questi progetti, del dolo specifico, quando il nostro sistema generale è basato sulla colpa ed è altresì caratterizzato anche da (sia pure poche) previsioni di responsabilità oggettiva. Ancora una volta, con riferimento all’elemento soggettivo, si ha la sensazione che la previsione legislativa del “mobbing”e soprattutto della responsabilità personale dei “mobber”, pur avendo effettuato, negli ultimi tempi, sensibili progressi, soffra di una visione per così dire “riduttiva” del fenomeno. Qualche cosa è stato fatto, molto può e deve ancora essere fatto.
 


Note

Nota n. 1: Vedi M. Meucci, Considerazioni sul “mobbing”(e analisi del d.d.l. n. 4265 del 13 ottobre 1999), in questa Rivista n. 11/1999; L. Veneri, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, ibidem, 1999, 1097 ed ivi 1115. In giurisprudenza, recentissimamente, Trib.Torino, 16/11/99, est. Ciocchetti, E.G. c. Soc. E.D.P.(inedita allo stato).

Nota n.2: elementi che hanno attenuato la responsabilità extracontrattuale: ricordiamo almeno: – una serie di fattori psicologici e di nessi psichici fra il soggetto e la condotta o fra il soggetto e l’evento (imputabilità, colpevolezza); -una serie di limiti scriminanti (quasi tutti di origine “moderna”. per esempio: lo stato di necessità), che hanno condizionato la “punibilità”; – istituti economici e sociali (pensiamo alle assicurazioni obbligatorie) e previsioni di corresponsabilità (per es. ex art. 2049 e 2087 cod. civ., su cui più oltre), che hanno “scaricato” le conseguenze economiche del fatto illecito su soggetti terzi; – esigenze di certezza e delimitazione anche cronologica del diritto (la decadenza e soprattutto la prescrizione), che hanno in molti casi condizionato o fatto cadere nel nulla le istanze di risarcimento; – limiti al pignoramento ed all’esecuzione forzata in generale, che non di rado hanno vanificato ogni possibilità di recupero concreto, ec c

Nota n.3: con riferimento al danno biologico e solo per limitarci a qualche cenno: – sul primato del diritto alla salute in tutte le circostanze: Corte Cost. 20/12/96 n. 399 in Orient. Giur. Lav., 1997, 1169; sul primato di detto diritto anche sul luogo di lavoro: Corte Cost. 18/7/91 n. 356, in Foro it. 1991,I, 3291 con nota di Poletti; Cass. Penale , sez. IV, 8/3/88 in Riv. Pen. economia, 1990, 149, n. CIANNELLA; sul bene primario della salute in sé considerato, quale diritto inviolabile dell’uomo alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale Cass. 24/1/90 n. 411, in Lav. prev. oggi, 1990,2387, con nota di Meucci; -sul danno biologico sul posto di lavoro e sulla perdita della sensazione di benessere avvertita nello svolgimento del lavoro (c.d. “cenestesi lavorativa”) Trib. Roma 11/7/95 in Riv. Giur. Circolaz. e Trasp., 1996, 141; Pretura Torino 8/2/93 in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 124, n. NALETTO; Pret. Milano 30/12/92 in Riv. Critica Dir. Lav., 1993, 387 ; su temi analoghi Cass. 6/7/90 n. 7101, in Lav. prev. oggi 1991,1181; Cass. 10/3/90 n. 1954 in Crit. Pen., 1995, 50 ; – sul danno alla vita di relazione sociale, alla sessualità e sul danno estetico, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 23/1/95 n. 755 in Zacchia, 1997, 117; Cass. 2/7/91 n. 7262 in Arch. Civ., 1991, 1126 ed altresì in Foro It., 1992, I, 803; Trib. Aquila 26/1/91 in P.Q.M., 1991, fasc. 1, 67; Trib. Sassari 19/5/90 Riv. Giur. Sarda, 1990, 717, n. FRAU ; Cass. 13/11/89 n. 4791 in Mass., 1989; Cass. 19/5/89 n. 2409 in Mass., 1989; Trib. Monza, 15/2/88 in Arch. Giur. Circolaz., 1988, 1067, n. GUSSONI; Trib. Ravenna 12/2/88 in Dir. e Prat. Assicuraz., 1989, 512 ; Trib. Padova 24/5/82 in Giur. di Merito, 1984, 65 ed altresì in Riv. It. Medicina Legale, 1984, 217 – sulla rilevanza, nel concetto di danno biologico, pure della componente morale: Trib. Bologna 13/6/95 in Riv. It. Medicina Legale, 1997, 811; Cass. 26/10/94 n. 8787 in Arch. Giur. Circolaz., 1995, 632; Trib. Milano 17/10/94 in Gius, 1995, 165; – sulla valutazione equitativa del danno biologico, avuto riguardo al “valore umano” perduto, e sui criteri di valutazione: Cass. 11/8/97 n. 7459 in Danno e Resp., 1998, 251, n. MONTAGUTI; Cass. 14/5/97 n. 4236 in Mass., 1997; Cass. 23/6/90 n. 6363 in Mass., 1990; Cass. 26/11/84 n. 6134 in Riv. Giur. Lav., 1985, II, 689, n. POLETTI; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18.

Nota n. 4: con riferimento al danno professionale e solo per limitarci a qualche cenno: nella giurisprudenza di merito, si veda: Pretura di Roma 17 aprile 1992, in Lav. prev. oggi, 1992,1172 con nota di Meucci; Pret. Milano 7/1/97 Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 593; Pret. Nocera Inferiore 5/12/96 in Riv. crit. dir. lav. 1996,458; Pret. Pinerolo 8/8/96 in Lavoro nella Giur., 1997, 153; Trib. Milano 6/7/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 121; Trib. Cagliari 5/7/96 in Lavoro nella Giur., 1997, 312, n. TOPO; Pret. Milano 11/3/96, in Riv. crit. dir. lav. 1996,677; Pret. Milano 11/1/96 Riv. Critica Dir. Lav., 1996, 741; Trib. Roma 3/1/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 117; Pret. Milano 20/6/95 in Riv. Critica Dir. Lav., 1995, 94; Pret. Catania 9/5/95 in Lavoro nella Giur., 1996, 77; Pret. Roma 20/2/95 in Riv. Critica Dir. Lav., 1995, 963; Pret. Milano 14/8/91 in Orient. Giur. Lav., 1991, 888 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, 403, n POSO ed altresì in Riv. Critica Dir. Lav., 1992, 679, n. MANNA ; Pret. Cagliari 29/10/82 in Giur. It., 1984, I, 2, 57; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18); in quella di legittimità si veda: Cass. 3/11/97 n. 10775 in Mass., 1997 ; Cass. 6/6/95 n. 6333 in Dir. Lav., 1996, II, 353, n. A.M.B.; Cass. 19/3/91 n. 2896 in Notiz. Giur. Lav., 1991, 454, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 10/4/96 n. 3340 in Giust. Civ., 1997, I, 1073 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1997, II, 66, n. CALAFA’; Cass. 23/11/95 n. 12121 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 4/10/95 n. 10405 in Riv. it. dir. lav. 1996,II,578 con nota di Bano; Cass. 20/2/95 n. 1843 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 11/1/95 n. 276 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 16/12/92 n. 13299, in Foro it. 1993,I, 2883; Cass. 10/3/92 n. 2889 in Giust. Civ., 1993, I, 199, n. PILATI riguardante in maniera specifica il passaggio da c ompiti operativi a quelli di studio; Cass. 13/8/91 n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992, II, 954(con nota di Focareta) riguardante la forzata inattività di un dirigente; Cass. 17/3/90 n. 2251 in Mass., 1990 e 17/1/87 n. 392 in Mass., 1990 sul valore dei compiti di coordinazione e guida del lavoro altrui; Cass. 24/1/90 n. 411, cit.in nt.3, su esaurimento nervoso a seguito di “reformatio in pejus”; Cass. 19/6/81 n. 4041 in Notiz. Giur. Lav., 1982, 5.

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